Rossini – Aureliano in Palmira

Rossini - Aureliano in Palmira

interpreti B. Mihai, F. Fagioli, M. Aleida, A. Karayavuz
direttore Giacomo Sagripanti
orchestra Internazionale d’Italia
regia Timothy Nelson
regia video non indicata
formato 16:9
sottotitoli It., Ing.
dvd Bongiovanni 20022

Opera conosciuta poco, questa, e per giunta conosciuta male. Perché citata sempre solo per via della  supposta irritazione rossiniana nei confronti delle libertà improvvisatorie che taluni suoi interpreti si sarebbero concesse (da cui la bizzarra estensione storiografica che Rossini intendesse opporsi a qualunque variazione, cosa oltremodo insensata), nonché dei numerosi autoimprestiti che, per essere arrivati al Barbiere dopo aver transitato nell’Elisabetta, sono stati sempre citati quale esempio di cinico opportunismo. Dimenticandosi che fu pratica rossiniana costante lungo l’intera sua carriera, a dimostrazione non già di qualunquismo artistico bensì delle ragioni che della musica fanno l’arte più libera e proteiforme che esista: capace d’esprimere perfettamente gioia e tormento con note identiche rese misteriosamente “diverse” dal diverso contesto narrativo ovvero, in fin dei conti, teatrale. E, per inciso, proprio nell’humus di tale mistero affonda una delle sue più robuste radici qualitative.
Decidendo comunque d’affrontare la sfida che a un festival ricco più d’idee che di quattrini pone un’operona seria di vaste proporzioni e non corta durata, s’è optato per uno spettacolo dalle scene oltremodo essenziali e di gradevole eleganza visiva, nelle quali si svolge una narrazione a vero dire un po’ troppo lambiccata in talune soluzioni in cui il quiz prevale sulla chiarezza, e che là dove si sceglie la chiarezza scade nella tipica, tranquillizzante non-regia prodiga di quegli atteggiamenti “eleganti” in luogo d’una gestualità articolata capace di dire qualcosa della personalità di chi sta cantando, che del nostro modo di far teatro è jattura tra le più antiche ma ahimè anche coriacee. Piuttosto in linea con la regia è anche la direzione: all’insegna del bel suono e del morbido impasto cromatico, con finezze strumentali tutte doverosamente sottolineate e messe in vetrina: carente sul versante teatrale, siffatto approccio ha però l’indubbio merito di spiegare piuttosto bene le ragioni in forza delle quali Rossini rinnova dal di dentro le sclerotiche strutture dell’opera seria trasformandola in quell’organismo nuovo cui quasi tutti i musicisti coevi guardarono attentamente, di fatto aprendo le strade all’Ottocento musicale.
Il cast, tutto di buon livello complessivo (altra fondamentale rivoluzione rispetto ai fallimentari tentativi uditi nella Martina Franca degli ultimi anni), schiera nei tre ruoli principali il discreto quantunque troppo filiforme protagonista Bogdan Mihai; affiancato dalla Zenobia di Maria Aleida, cui l’inerzia espressiva davvero eccedente pone sovente in secondo piano i meriti vocali costituiti da timbro gradevole, linea morbida e omogenea, coloratura un po’ ansimante ma onorevole: ma schiera altresì un  assoluto fuoriclasse col personaggio di Arsace affidato al controtenore argentino Franco Fagioli, fresco di premio Abbiati sacrosantamente assegnatogli per la sua partecipazione alla Rodelinda sempre a Martina Franca l’anno precedente (e a proposito: non è che in valle d’Itria si stiano scordando di questo attesissimo dvd, nevvero?). Superfluo rammentare come la scelta d’un controtenore anziché d’un contralto in un ruolo scritto per l’ultimo castrato della storia teatrale, ancorché in perfetta linea con quanto si va da decenni facendo in tutto l’orbe terracqueo extraitalico, ha suscitato ire funeste (o patetiche? ogni ira funesta, in fondo, ha in sé parecchio di patetico) da parte dei “talebani vocali all’amatriciana” che proprio questo festival ha per anni nutrito: per parte mia, ritengo che la scelta sia oltremodo valida, purché si trovi un elemento valido per sostenerla. L’hanno trovato. Sicurissima la linea vocale, morbida e ovunque governata da musicalità eccezionale per quanto attiene non solo alla produzione del suono ma soprattutto al certosino lavoro sulla parola, plasmata così da coglierne sempre il senso – non solamente drammaturgico, bensì proprio musicale – che Rossini vi ha infuso: sicché la scolpitura delle consonanti e l’allargarsi delle vocali diventano altrettante sfumature d’una tavolozza cromatica oltremodo varia e articolata, ma per fortuna del tutto esente da ogni manierato e antiteatrale cincischio.
Elvio Giudici


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