Strauss – Arianna a Naxos

interpreti R. Fleming, S. Koch, J. Archibald, R.D. Smith
direttore Christian Thielemann
orchestra Staatskapelle Dresden
regia Philippe Arlaud
regia video Brian Large
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Cin.
dvd Decca 0743809

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Per ascoltare reso in modo così straordinario quello che degli straordinari tessuti strumentali usciti dalla fantasia di Strauss è forse il più sublime e certamente il più originale, credo si debba risalire parecchio nel tempo: almeno fino alla finora insorpassata esecuzione discografica di Karajan per la Emi guidata dalla direzione artistica di Walter Legge.
Che la Staatskapelle sia un’orchestra di solisti è cosa arcinota al pari della sua spontanea affinità col mondo sonoro straussiano: ma anche potendo disporre di simili bonus di partenza, è stupefacente la fantasia mostrata da Thielemann nel dosare all’infinitesimo le pulsioni dinamiche senza mai scadere nell’edonismo calligrafico ma anzi traducendo la cameristica trasparenza in un continuo dialogo che serra il percorso narrativo in tensione continua non solo nel Prologo (dove potrebbe sembrar cosa più semplice; però sembra soltanto) ma, in misura pronunciatissima, anche nell’Opera. Nella quale la melanconia sfinita e avvolta in strie luminescenti, cara a una certa tradizione (quella che appunto  aveva in Karajan il proprio apice, di conserva a una sorta di pensosa astrazione metafisica tipica di quegli anni), viene radicalmente sostituita da un’urgenza sottilmente nevrotica, un’ansia di vivere che non lede mai la suprema bellezza cromatica dello strumentale, ma la fa come ribollire dall’interno, tendendola e rilasciandola in perenni spinte e controspinte che traducono con eccezionale vivezza teatrale questo sublime gioco di specchi in cui il Vero si riflette nell’Apparenza rendendo unica verità possibile il massimo della finzione.
Renée Fleming possiede ancora sostanzialmente intatta quella luminosa cremosità timbrica che ne rende la voce così personale: qualche durezza in alto e talune percepibili spinte nell’involo (ma una maggiore corposità in basso: assai bello il sempre perfido la bemolle di “Totenreich”!), sono ampiamente compensati da una vivacità accentale che non sempre costuma elargire, ma che l’orchestra le sollecita e l’estorce direi quasi inevitabilmente, con risultati espressivi notevolissimi, tanto da farne una delle maggiori Primedonne ascoltabili su qualsivoglia supporto. Sophie Koch è un Komponist privo d’alcuno sdilinquimento, vivacissimo e nevrotico ma con quella patina di indifeso smarrimento che ne fa lo straordinario personaggio che deve essere. Eccellente la Zerbinetta di Jane Archibald, che onora ogni fuoco d’artificio della sua infernale aria senza ridurla a pura belluria sonora ma anzi rendendone di diverso significato ogni virtuosismo.
Tutte e tre, poi, recitano in modo superlativo al pari di tutto quanto il cast, in uno spettacolo che si pone come ottimo esempio di tradizione rielaborata con intelligenza e svolta in linguaggio teatrale semplice ma non semplicistico nel privilegiare la logica e soprattutto la comprensione narrativa: anche nell’Opera, la cui inevitabile staticità viene benissimo vivacizzata dal suo svolgersi davanti a un elegantissimo pubblico anni Venti distribuito su una scalinata molto Art déco (e i componenti maschili abbandonano l’aristocratica compostezza per affollarsi a chiedere autografi – e a sperare altro – al termine del “numero” dell’affascinante sciantosa). L’unico anello debole di questa aurea catene di bellurie è quello solito per quest’opera, il tenore: ma Robert Dean Smith fa solo modicamente soffrire, e non guasta più dell’inevitabile una riuscita comunque maiuscola.
Elvio Giudici

 

 

 

 

 

 


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