Verdi – La forza del destino

interpreti J. Kaufmann, A. Harteros, L. Tézier, V. Kowaljow, N. Krasteva, R. Girolami
direttore Asher Fisch
orchestra Bayerisches Staatsorchester
regia Martin Kusej
regia video Thomas Grimm
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted.
dvd Sony 8875160649

 

 

laforza-del--destino

Lo spettacolo proviene dalla Staatsoper di Monaco. E si vede. Il teatro guidato da Nikolaus Bachler è probabilmente, per quanto concerne il repertorio extra-italiano, il migliore d’Europa: nel nostro, senz’altro no. Con l’eccezione d’una Lucia alquanto discutibile sul versante scenico, ma diretta in modo sorprendentemente innovativo da Kirill Petrenko (direttore musicale del teatro; bavaresi fortunati), i nostri titoli sono affidati in massima parte a routinier a vario grado di scalcagnataggine. Fisch è dei peggiori. Di quelli, cioè, ferreamente convinti che Verdi sia uno zum-pa-pa da pestare il più possibile per quanto concerne il ritmo, da spampanare il più possibile nelle aperture melodiche, da tagliare quinci e quivi (come al solito è la scena dell’accampamento, eterna incompresa da direttori massimi, grandi e piccoli, a scapitarne di più: qui spariscono Trabuco e reclute, nientemeno. Spostato dopo l’accampamento – con decisiva perdita di forza narrativa – è il secondo duetto Alvaro-Carlo. Tagliata la sublimissima Ronda. Roba da galera immediata e interdizione perpetua da ogni podio italiano), da azzerare in fatto di dinamica, colori e baggianate del genere, ininfluenti a fronte del nazionalpopolare “cuore in mano” con corollario di sole pizza e amore.
Aiutato, in questo, da una regia tipicamente riferibile al Konzept di pretta marca tedesca, di cui Kusej è pontefice ottimo massimo. Konzept intrigante, magari: senz’altro di più rispetto al suo Macbeth anch’esso monacense, forse il più orrendo di sempre. Quantunque, nella Forza, resto più che mai convinto che l’errore peggiore sia quello di ricercare “la quadra” narrativa in una tela che programmaticamente la nega in favore d’una straordinaria sequenza di pannelli debitori del romanzo d’appendice: quello dei giornali popolari col “segue nella prossima puntata” e col “facciamo un passo indietro”, dove coerenza e logica cedono stupendamente al fascino del romanzesco. Comunque.
Kusej imposta fin dalla Sinfonia (Leonora e Carlo bambini) il quadro d’una famiglia rigidissimamente inquadrata nella repressione cattoborghese, simbolo della quale è la tavola imbandita. Leonora incontra un ribelle piacione con capigliatura rasta, propensione all’alcool e modi spicci, e logicamente ne è attratta. L’uccisione involontaria del padre innesca il classico meccanismo di senso di colpa-rimozione. O addirittura, la morte del padre è null’altro che proiezione inconscia d’un desiderio d’evasione (Curra, che favorisce i piani di fuga di Leonora, “diventa” una Preziosilla in puro stile fetish) da una casa-prigione il cui simbolo, il lungo tavolo, è presente a ogni snodo narrativo: e il senso di colpa si materializza tanto nella figura del fratello, visto come una sorta di robot guerriero, quanto nel Padre Guardiano che – assunto dallo stesso interprete del Marchese, ne decreta la segregazione punitiva, entro la casa avita che riflette (in una sorta di freudiana causa ed effetto) la progressiva caduta di Leonora apparendoci sventrata al terz’atto e all’ultima riempita da un ammasso di croci bianche.
L’idea potrebbe magari funzionare anche: ove però vi fosse una regia, che il Konzept facesse vivere in vicenda articolata e conseguente. Invece, i gesti sono quelli che potrebbe suggerire, se non proprio un Pier’Alli, quantomeno un Pizzi. E allora, il Konzept finisce con l’essere una scenografia, entro la quale c’è il nulla della consueta gestualità fai-da-te, del tutto scollegata dall’andamento musicale. Con, naturalmente, un’infinità di tocchi che in area germanica fanno tanto pensosa intellighenzia, ma a me paiono pure e semplici scemenze (e le scemenze, per rifarsi a Wilde, sono raramente semplici e mai pure). Ha senso “O tu che in seno” intonato da Alvaro sotto all’onnipresente tavolo: ma non ce l’ha il tizio che fa ginnastica per gli addominali sullo sfondo; e da scompiscio ridarello è il “plico celato” reso un baulone chiuso dalla chiavona che Alvaro porta al collo, il coperchio del quale è sollevato da una mano dal di dentro per mostrare una lama di luce entro cui avanza Leonora. E il Rataplan tra cadaveri, che rispondono a una Preziosilla allucinata e sgomenta? Ma dai, Martin, proprio non è cosa. Comunque, non cosa verdiana.
Il cast schiera Kaufmann, il cui Alvaro non è però pari al suo Radamès: diversi suoni gutturali, una tal quale fatica nell’avanzare verso il registro superiore (e con un dispiego di trucchi da vecchia provincia, tipo il cambiare quinci e quivi le vocali…), una tavolozza cromatica che, quantunque sempre ragguardevole, lo è un po’ meno del solito. Ludovic Tézier è sempre rozzo, sbrigativo e tonitruante: il solito Carlo monolitico e privo d’ogni sfumatura, quello cioè voluto dalla tradizione ma nient’affatto da Verdi. Benissimo Vitalij Kowaliow con una linea vocale ampia, morbida, ricca di sfaccettature nonostante una regia che non le presuppone per nulla. Spaventosa la Preziosilla d’una Krasteva già improponibile a Vienna con Mehta, e qui ingrassata di fisico e ancor più scalcinata di linea. Grossolano e rozzissimo Rentato Girolami, resta da dire della solita Anja Harteros, imprescindibile presenza d’ogni nuovo allestimento monacense. La trovo presenza scenica notevole, ma di canto oltremodo discutibile: acuti fissi (Gesù, quel si bemolle di “invan la pace”: puro fischietto da marina), linea sconnessa, dura, gravi intubati e sordi (pessimo, il duettone col Guardiano, specie accanto a un basso viceversa superbo), dinamica poverissima onde colori niente, chiaroscuri niente, fraseggio noioso come la pioggia.
Elvio Giudici

 

 

 


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