Wagner – L’Olandese volante

Wagner - L’Olandese volante

interpreti J. Uusitalo, C. Naglestad, R. Lloyd, M. Jentzsch
direttore Hartmut Haenchen
orchestra Netherlands Philharmonic
regia Martin Kusej
regia video Joost Honselaar
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Ol.
dvd Opus Arte 1049D

Kusej rientra senza dubbio nel novero dei registi. Impiega con estrema abilità lo spazio scenico; imposta con sicurezza un tracciato narrativo e vi fa rientrare ogni singolo momento coinvolgendo dal primo all’ultimo non solo i personaggi presenti in scena, ma anche ogni singolo componente del coro, fatto recitare in modo che ciascuno riesca sempre a relazionarsi con gli altri. Naturalmente, come chiunque sappia davvero il fatto suo, ha un proprio stile di linguaggio: al quale ciascuno – fatto salvo appunto che deve comunque ammettere di trovarsi davanti a una regia e non a una semplice decorazione – reagisce poi a seconda del gusto soggettivo. A me il teatro a quiz ammetto dia terribilmente ai nervi: e Kusej è un grande dispensatore di quiz. Nel presente caso, per fortuna rinuncia ad alcune delle sue manie più sgradevoli, come l’ambientazione a tutti i costi miserabilista e la vera e propria fissa per gli indumenti intimi.
L’idea centrale è di presentare una società ricca, quella di Daland: signore anziano impeccabilmente vestito di bianco, che abita in un posto popolato da donne eleganti, annoiate e propense allo shopping ma la cui figlia è “diversa”, tutta vestita di nero mentre le altre escono dalla piscina in soffici accappatoi e si rivestono di tailleur scicchissimi; in quanto diversa, Senta è derisa dalle altre, che non sopportano il suo stare mutigna, sempre china ostinatamente su di un arcolaio d’altri tempi e con a fianco il quadro d’una marina solitaria. In questa società ostentatamente opulenta, cerca d’entrare una massa di disperati molti dei quali di colore, vestiti di nero con un cappuccio che in certi momenti li fa somigliare a dei fantasmi, raggruppati attorno a una sorta di capo carismatico forse nient’affatto raccomandabile, che si mette in affari probabilmente loschi con Daland. Erik, come tutti gli altri, si sente minacciato: e – da solo o in compagnia d’altri che non vediamo – fa fuori dapprima un nutrito gruppo di questi clandestini (chiamiamoli pure così, che ci si capisce meglio) e infine spara sull’Olandese, costretto però a far fuori anche Senta che lo sfida apertamente. Direi che funziona. La scena, bellissima nella sua glaciale eleganza nonostante la totale assenza d’oggettistica, è fissa ed è divisa in due da una doppia parete tutta di vetro con diverse porte. Dietro s’intravede una piscina, sul davanti si svolge di volta in volta l’azione: manovrando solo le luci (usate in modo magistrale) s’ottengono momenti assai suggestivi, come la massa di incappucciati che da dietro preme con le braccia allargate contro i vetri, in una luce giallastra che li rende altrettanti spettri venuti a incalzare una coscienza sociale veramente sudicia, che reagisce sbarazzandosene anche a costo di riempire il proprio elegante club di cadaveri il cui sangue si allarga sull’azzurro della piscina (ma i pochi sopravvissuti sono di poco meglio: e corrono a spogliare dei suoi soldi il cadavere dell’Olandese. Vittime e carnefici si somigliano spesso).
Con quadro così nitido e dalla teatralità di così immediata presa, proprio non si vede la necessità di alcune notazioni-quiz come ad esempio il grosso pesce che boccheggia sul marmo candido del proscenio: ma pazienza, qualche piccolo scotto si finisce col pagarlo volentieri. Anche perché dispone nel migliore degli stati d’animo una direzione veramente bella. Alla testa di un’ottima orchestra, Haenchen si conferma (dopo il memorabile Ring olandese di dodici anni fa accolto anch’esso nel videocatalogo Opus Arte) uno dei maggiori direttori che il teatro di Wagner abbia di recente avuto. Liricissima, intrisa di melanconia ma pulsante d’una angosciata difficoltà del vivere che affonda lunghe radici nel teatro e in genere nella cultura nordica, si fonda su di una concertazione che unisce trasparenza estrema e libertà dinamica assoluta: nella quale piani e pianissimi prevalgono nettamente (ma senza mai rilasciare la tensione: anzi, è vero l’opposto) mentre i colori possono a un primo ascolto sembrare opachi e addirittura stinti, e possiedono invece la stessa dilavata, visionaria, limpida vivezza d’una tela di Munch.
Uusitalo consegna al video il suo terzo Olandese: un record, direi. Non onnipotente come nel video finlandese, la sua voce è però sorretta da un’analisi interpretativa capace di far storia a sé. Non credo d’aver mai ascoltato, in questa parte, simile varietà dinamica, simile ricchezza introspettiva condotta attraverso piani e pianissimi quasi disincarnati, in seno ai quali repentine esplosioni erompono con forza squassante, d’effetto strepitoso: e la sua massiccia presenza scenica, enfatizzata dalla possente testa priva di capelli e dallo sguardo azzurro capace di gettar lampi gelidi o d’aprirsi in dolcezze quasi disarmate, è di quelle che s’imprimono per sempre nella memoria. Cancellando, per inciso, il brutto ricordo di quello Scarpia monacense che per tutti quanti vi hanno partecipato sarebbe stato meglio non affidare alle riprese televisive. Molto brava Catherine Naglestad, grandissima attrice sia scenica sia vocale, alla quale si perdonano occasionali fissità e stimbrature, rese comunque sempre espressive da uno scavo sulla parola che non s’ascoltava dai remoti tempi della Silja. E qui finiscono le lodi: definire note quei suoni che escono dalla bocca di Lloyd eccede ogni caldo affetto sempre provato nei confronti di così grande artista; e quanto a quelle del tenore Marco Jentzsch, poco si può dire perché pochissimo le si sente, ma quando per avventura ciò accade, si vorrebbe non aver sentito.

di elvio giudici


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