Gli 80 anni di Maurizio Pollini

L'intervista al grande pianista che ripercorre con noi il suo esemplare percorso artistico

 

MILANO – Le cronologie dicono che Maurizio Pollini, 80 anni il 5 gennaio, ha suonato in pubblico per la prima volta nel 1952, che nel 1957 ha avuto il secondo premio al Concorso Internazionale di Ginevra, e nel 1958 in un concerto diretto da Thomas Schippers alla Scala era il solista nella prima esecuzione della Fantasia per pianoforte e strumenti a corda di Giorgio Federico Ghedini. Poi nel 1960 c’è stata la vittoria al Concorso Chopin di Varsavia e il primo disco. Ma prima di parlare di qualche aspetto del percorso artistico allora iniziato vorrei chiedere che cosa significava trascorrere l’infanzia e l’adolescenza a contatto con il padre, Gino Pollini (l’architetto che insieme con Luigi Figini è stato tra i grandi maestri del razionalismo in Italia) e con lo zio Fausto Melotti, uno dei maggiori artisti italiani del ‘900, che anch’egli, come la sorella Renata, madre di Maurizio Pollini, aveva studiato il pianoforte. Melotti considerava la musica “matrice delle arti” e parlava della “scansione contrappuntistica” delle proprie opere.
“Ricordo che frequentavo lo studio di mio padre e andavo spesso in quello dello zio, Fausto Melotti. Andavo a trovarlo, vedevo quello che faceva. Che questi rapporti abbiano influenzato molto la mia attività in campo musicale non potrei dirlo. Posso dire che già allora mi piaceva moltissimo quello che faceva, amavo la dimensione ‘astratta’ di molte sue sculture. Penso che potrebbe essere apprezzato di più, soprattutto in ambito internazionale. Senza dubbio ho avuto una precoce educazione all’arte moderna. L’accostamento alla musica moderna è stato più graduale. Ma per esempio ricordo ancora il Wozzeck di Berg diretto da Mitropoulos alla Scala nel 1953: ero un ragazzino; ma fu una esperienza memorabile”.
Nel 1960, a 18 anni, c’è stata la clamorosa vittoria al Concorso Chopin di Varsavia. Ma nel 1961 lei si è anche iscritto all’Università, a fisica.
“Ma ho solo comprato i libri, non ho fatto neanche un esame… In realtà non ero andato al concorso Chopin con la tipica mentalità con cui si va ai concorsi. Avevo impostato la mia partecipazione in modo un po’ diverso, con l’idea di fare un’esperienza, di vedere un paese nuovo, conoscere altri pianisti. Poi le cose sono andate così, sono maturate, Rubinstein è stato molto gentile, siamo diventati amici…”
Dopo i primi concerti seguiti alla vittoria al Concorso Chopin c’è stata una pausa di riflessione di circa un anno e mezzo…
“Dopo la vittoria ho avuto molte richieste, come se fossi nella situazione di avviare una carriera normale. Io a questo non ero preparato. Volevo maturare con calma. Questa scelta ha avuto conseguenze non positive sul piano pratico: dopo un paio d’anni nessuno si ricordava più di me. Ricevevo pochissime proposte rispetto a quel che si era prospettato prima.”
Come si è formato il repertorio?
“Mi sono occupato di tutto, naturalmente dei classici, ma contemporaneamente un po’ alla volta anche dei moderni, del Novecento storico e del secondo dopoguerra abbastanza presto ho studiato Bartók, Stravinskij, Prokofiev, Berg, Webern, tutto lo Schönberg pianistico. E la Seconda Sonata di Boulez, verso la fine degli anni sessanta. Posso essere più preciso sulla Seconda Sonata di Boulez, che ho suonato per la prima volta il 15 gennaio 1969 a Torino, in un concerto dell’Unione Musicale, insieme a All’aria aperta di Bartok, ai piccoli pezzi op. 19 di Schönberg e ai Trois Mouvements de Pétrouchka di Stravinskij.”
Lo stesso programma è stato ripetuto in altre città nei mesi successivi, tra l’altro a Roma per la Istituzione Universitaria dei Concerti il 13 aprile. In quella occasione Fedele D’Amico scrisse che trovava incredibile che si fosse imparata a memoria la Seconda Sonata di Boulez, perché questa musica secondo lui non aveva alcuna organicità. Credo che lo trovasse mostruoso, anche se non ha usato questa parola; ma concludeva l’articolo con una battuta che mi è rimasta nella memoria: “Ho molta ammirazione, non da oggi, per Maurizio Pollini. Ma incontrarlo di notte, in una strada solitaria, mi farebbe paura”. In verità il costante scavo interpretativo nella Seconda Sonata è teso a farne comprendere proprio la organicità.
“Un’esecuzione ideale ne dovrebbe rivelare tutta la ricchezza musicale, facendone apprezzare ogni dettaglio, nella massima chiarezza del ritmo e dell’articolazione contrappuntistica. Esiste la difficoltà di farla comprendere nella sua enorme complessità. Richiede una chiarezza assoluta, che renda al pubblico il meno difficile possibile seguirne il discorso. Ciò è ulteriormente complicato dal fatto che secondo me sono necessari tempi molto mossi, anche se non come li indica l’autore, anche per togliere qualunque sospetto di ‘neoclassicismo’ da un Boulez che in qualche modo fa a pezzi, ma contemporaneamente riprende una forma classica (per l’ultima volta). È sempre una sfida avvicinarsi a una esecuzione degna di quest’opera straordinaria. Di recente sono stato a un convegno in Francia sulla musica pianistica di Boulez. Tra le altre cose ho raccontato ciò che Boulez mi aveva detto, correggendo alcune indicazioni dell’edizione a stampa, chiedendo ad esempio un andamento più lento dove era scritto di accelerare ancora rispetto al già impossibile metronomo del primo tempo.”
Nel 1969 tra le sonate di Beethoven che aveva già in repertorio c’erano le ultime, compresa quella op. 106, che una volta a Salisburgo ha proposto insieme alla Deuxième Sonate di Boulez.
“Non ho ripetuto quella esperienza perché trovo che la complessità di questi due capolavori crei una tensione eccessiva all’interno dello stesso concerto. Ma l’op. 106 doveva essere presente a Boulez quando scrisse la Deuxième Sonate. Entrambe le sonate sfruttano le risorse estreme di un virtuosismo molto audace sullo strumento, ciascuna nel suo momento storico. La scrittura contrappuntistica nella 106 è di estrema importanza, non solo nella fuga ma anche in parti del primo tempo, e tutta la Deuxième Sonate è rigorosamente contrappuntistica. Altre analogie potrebbero riguardare la dimensione del movimento lento, molto vasto, il carattere concentrato ed estremamente energico del primo tempo, la brevità dello Scherzo.”
Torniamo ai criteri che ispirano le scelte del repertorio.
“Sono sempre stato tremendamente esigente, ho voluto privilegiare assolutamente ed esclusivamente le composizioni che non potevano per nessuna ragione al mondo darmi un momento di mancanza di entusiasmo. Ho messo in repertorio solo opere di cui ero entusiasta al massimo grado e di cui sarei sempre rimasto tale. Sono pezzi con cui devo poter avere un rapporto, per così dire, permanente. Il che naturalmente mi ha fatto anche perdere molte possibilità. Ma se non suono un autore non vuol dire che non lo apprezzi. Ci sono grandissimi che ho molto trascurato: per esempio Ravel, o Scarlatti.”
(continua…)

Paolo Petazzi

L’intervista di Paolo Petazzi a Maurizio Pollini per i suoi 80 anni è pubblicata in versione integrale nel numero di gennaio di “Classic Voice”

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