Addio alla signora del clavicembalo

Scomparsa a 90 anni Emilia Fadini, una vita per Scarlatti e per i suoi allievi

La musica è fatta di segni sulla carta, ma anche di pronunce impossibili da scrivere. A novant’anni appena compiuti, lo scorso ottobre Emilia Fadini (clavicembalista, didatta, tra le massime studiose di Domenico Scarlatti) riassumeva il suo ideale perseguito alla tastiera con una schiera infinita di allievi, che le hanno dedicato un libro (“Cedere il passo al sogno”. L’esperienza musicale di Emilia Fadini – Lim), e che ora la piangono. Ecco l’intervista che rilasciò a “Classic Voice” apparsa sul numero di dicembre 2020. Il suo testamento spirituale.

 

 

 

Per capire, almeno in parte – “l’Emilia” dal vivo (ma anche al telefono) è un fenomeno a sé -chi  è, è stata, e rimarrà Emilia Fadini per il mondo musicale non solo italiano ora c’è un libro collettivo dal titolo lieve e alacre com’è lei (“Cedere il passo al sogno”. L’esperienza musicale di Emilia Fadini, a cura di Marco Moiraghi, Libreria Musicale Italiana) in cui, con la scusa del 90esimo compleanno, allievi del passato e del presente, amici e studiosi, compagni e “compagni” della stagione eccitante della “scoperta” della musica storicamente informata ce la raccontano. Il ritratto è sfaccettato e vivido, insieme appartato ed elfico come merita. Ci sono la sua vita, le occasioni in cui è scesa anche “politicamente” in campo per allargare le possibilità di studiare musica (anche fuori orario: nel 1976 si batté a sangue per aprire i Corsi Popolari Serali di Musica del Conservatorio di Milano) e approfondire la conoscenza della letteratura preclassica. Gli interessi musicali senza preclusioni di Emilia Fadini hanno influenzato generazioni di musicisti e attraverso la pratica attiva della ricerca – compendiata nell’edizione critica delle Sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti avviata nel 1978 – indicando itinerari di consapevolezza stilistica e modernità esecutiva che lo stuolo di allievi continuano a diffondere e accendere di attualità. 

“Lasciamo da parte le nuove definizioni – a me piace ‘musica antica’ come si diceva una volta, o del passato: non può esistere una musica e un’esecuzione storicamente disinformate. Perlomeno, non ci dovrebbe essere”. 

Informato” come conquista di un metodo e di una familiarità con l’applicazione pratico-esecutiva di alcuni principi. Il punto di arrivo di un’indagine storico stilistica… 

“Ma non siano affatto arrivati, il cammino della ricerca non può ‘arrivare’. Proviamo a ripercorrere un po’ di storia della consapevolezza ‘antica’. Bisogna partire dall’apporto strepitoso dell’organologia. Ciò che è avvenuto dai primi del ‘900 agli anni cinquanta-sessanta e ha portato al quadro ‘musicale’ di oggi: non ci sarebbe se non si fossero trovati e ricostruiti gli strumenti. E con essi il timbro, componente obbligata per capire l’estetica del tempo, ricostruendo la tecnica giusta per suonarli e ottenere il meglio”. 

E favorire la lettura corretta dei testi. 

“Più che la lettura della musica parlerei di analisi della scrittura musicale. Non si riflette abbastanza sulla rivoluzione ch’è stata la scrittura, una conquista per l’umanità senza paragoni: per secoli, anzi millenni, siamo stati senza musica scritta. Quindi l’evoluzione e le ragioni che hanno guidato la rapida evoluzione del sistema di segni della musica devono entrare nell’idea musicale proiettata all’esecuzione. I segni vanno ‘usati’ per arrivare alla musica”. 

E portarla la pubblico… 

“L’esecuzione, poi, deve esser basata prima di tutto sulla volontà di trasmettere emozioni, affetti, sorprese, azzardi”. 

Affetti”, vocabolo difficile da spiegare. 

“L’affetto musicale richiede ‘pronunce’ – già gli arabi, ben prima del cristianesimo quindi, lo scrivevano. È una cosa impalpabile, non esprimibile in simboli ma da trovare direttamente, in esecuzione: modulando la voce e il timbro dello strumento, osservando suoni e silenzi – non tanto le pause ma i respiri meccanici necessari allo strumento; non diversi dalle prese di fiato di chi parla e canta, essenziali a suggerire l’emozione dell’attesa, suscitare e stuzzicare l’immaginazione di chi ascolta. Senza dimenticare che anche nelle musiche antiche dove ci sono indicazioni agogiche o dinamiche, la relatività di quelle annotazioni non può essere aggirata con piccole certezze informate”. 

Ma che orientano l’interprete… 

“Però l’interpretazione non è scritta. Trovo ciò una cosa meravigliosa: abbiamo la possibilità di creare la musica ogni volta che la si esegue”. 

E ciò vale anche per la letteratura dei secoli successivi. 

“Naturalmente: la musica è la sola espressione d’arte che si basa sulla scomparsa dell’opera stessa. La concretezza esecutiva non è oggettiva, è temporale. Alzi il dito dal tasto dell’ultima nota, e si ricomincia da capo: la ricreazione prevede che ogni cosa sia subito rimessa in discussione. L’interpretazione è il regno delle incertezze; l’occasione per conoscere i problemi, non per risolverli. Allo stesso modo la storicizzazione delle musiche e degli stili dev’essere continua, quasi ossessiva”. 

Perché in Italia per anni c’è stata una sorta di paura della “musica antica”? 

“Non paura ma diffidenza frutto della generale arretratezza di cultura musicale nazionale. Siamo figli della Riforma Gentile che aveva escluso la musica dalle forme d’arte da studiare. Perfino i Conservatori, pur allevando musicisti strepitosi, non hanno seminato cultura musicale; anche questa scuola specializzata s’è trovata impreparata di fronte alle novità che venivano dall’estero”. 

Si può dire che le tastiere hanno compendiato tutti gli stili musicali pre-Ottocento? 

“La cultura del ‘come’ leggere la musica sulle tastiere nasce dalla conoscenza della storia e degli scritti relativi a strumenti diversi: ho imparato di più dai trattati di flauto, violino e di canto. La tastiera a corde e canne ha maggiori possibilità tecniche e più voci ma una immensa responsabilità: raccogliere e sintetizzare le conoscenze e pratiche degli altri strumenti. Infatti, ha un repertorio sterminato”. 

Non è al centro della vista concertistica, però. 

“È ancora un limite di politica cul- turale. Di certi mondi musicali si conosce poco perché si è privilegiato ciò che il pubblico apprezza senza fatica”. 

Come giudicare allora la vita musicale pubblica? 

“Rischiano le piccole istituzioni, spesso presidi importanti per i territori, che hanno voglia e audacia di creare spazio di conoscenza musicale non scontata. Mancando la spinta d’una cultura musicale di base la società però non comprende e tutela la loro azione di rigenerazione di repertorio e interpreti”. 

Vogliamo aggiornare il suo cammino con Scarlatti? 

“È in stampa il decimo volume curato col bravissimo Moiraghi: i 30 Essercizi. L’11esimo sarà dedicato alle edizioni del ‘700 e alle Sonate dubbie”. 

Questo meraviglioso lavoro quanto l’ha distolta dal resto? 

“Non mi ha sottratto nulla: ricerca, didattica e esecuzione sono una tri- nità indissolubile”. 

Però dal Conservatorio di Milano andò via prima della scadenza ufficiale. 

“Avevo bisogno di aria non di gabbie, regolamenti e istituzionalità. Dopo non ho smesso di insegnare, anzi. E dagli allievi ho soprattutto imparato. Ognuno con la sua dimensione-misura artistica e umanità, mi ha comunicato, ispirato, aperto mondi diversi. Di questo scambio continuo e proficuo sono loro grata”. 

Angelo Foletto


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