Händel – Rinaldo

ZURIGO 

[interpreti] J. Galstian, L. Nikiteanu, A. H. Moen, M. Hartelius, K. Peetz, R. Drole
[direttore] William Christie
[regia] Jens-Daniel Herzog da un Konzept di Claus Guth
[scene] Christian Schmidt
[coreografia] Ramses Sigl
[teatro] Opernhaus

La regia doveva essere del genialissimo Claus Guth, che poi ha dovuto rinunciare per ragioni di salute. Di Guth resta il “Konzept”, realizzato da Jean-Daniel Herzog. E così finisce che lo spettacolo diventa una specie di summa di due recenti Händel dell’Opernhaus, entrambi magnifici: il Radamisto di Guth e l’Orlando di Herzog. Del primo si cita la struttura, un’ingegnosa scena rotante che moltiplica gli ambienti, permette dissolvenze cinematografiche e risolve alcuni dei molti problemi posti da quella movimentatissima Zauberoper che è Rinaldo. Dell’Orlando, c’è il vitalismo scenico dei protagonisti. Avete presente la regia d’opera come la concepiscono in Italia, con il canoro elefante che entra da destra, si sistema al centro, canta la sua aria alzando al massimo un braccio ed esce da destra (o viceversa)? Beh, qui è l’esatto contrario: una parola, un gesto. E certi corpo a corpo fra nemici hanno una fisicità da stuntmen. Naturalmente l’ironia si spreca. Cristiani e maomettani sono due corporation nemiche che si combattono per far firmare alla concorrenza contratti-capestro, senza ovviamente risparmiare i colpi proibiti e nemmeno quelli bassi, in una serie di ambienti “neutri” tipici di questa nostra asettica contemporaneità: sale d’aspetto e da riunione, centri direzionali con scrivanie presidenziali e divanetti in pelle, scale mobili e carrelli delle pulizie. Lo spettacolo moltiplica le citazioni ai topoi quotidiani o cinematografici della nostra contemporaneità: Rinaldo è un manager di successo, Armida una fatalona hollywoodiana, Argante un ambiguo businessman mediorientale. Ma recupera anche la dimensione irrealistica e fantastica del barocco, per esempio con surreali ballettini di manager incravattati e Armidine sexy che ricordano quelli del Giulio Cesare di McVicar a Glyndebourne. Spettacolo meraviglioso, insomma, dove si moltiplicano i colpi di scena e quelli di genio. Per esempio, a “Cara sposa”, dove lo spettacolo s’immobilizza di botto e tutti cominciano a muoversi al ralenti, in un momento di sospensione sognante e incantata, perfino stranamente commovente. O i “Venti, turbini” dell’aria “di tempesta”, venti veri che fanno girare verticosamente la scena e impediscono a chiunque di tenersi dritto in piedi. Puro genio.
A questo livello si piazza, manco a dirlo, William Christie, del quale è inutile ripetere il peana: la sua direzione è debordante di energia, ritmo (mai gli “ostinati” händeliani lo sono stati tanto), dinamica amplissima, senso teatrale. L’unico paragone possibile è con il René Jacobs di Innsbruck, altrettanto energizzante ma forse ancor più fantasioso. E l’orchestra barocca della Maison zurighese, “La Scintilla”, si copre davvero di gloria: fantastiche le trombe in “Sibilar gli angui d’Aletto”, il flauto a becco, il tiorbista. I cantanti sono perfetti da vedere e tutto sommato funzionali da ascoltare. Ci vorrebbe un controtenore per dare varietà timbrica a una compagnia altrimenti quasi tutta femminile, dove la migliore è Malin Hartelius, un’Armida non di grandi mezzi ma usati con molto giudizio e scatenatissima in scena. Manca, però, la grande voce e/o il grande virtuoso, cioè qualcosa che sta all’opera barocca come la ciliegina alla torta. Un esempio che vale per tutti è quello di Juliette Galstian, che fa Rinaldo con una buona voce di soprano lirico, agilità ben padroneggiate, una bella morbidezza nel canto patetico, ma senza essere mai davvero trascinante, eccezionale, travolgente. Insomma, forse l’omogeneità non è il primo requisito da chiedere a una compagnia che affronta il Rinaldo. Peccato, altrimenti le cinque stelle per questo c’erano proprio tutte.

Alberto Mattioli


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299 Aprile 2024
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