Verdi – Don Carlo

Spettacolo geniale, che trova perfetto contraltare in Chung. Cast memorabile
interpreti P.Pretti, M.Agresta, A.Esposito, J.Kim, V.Simeoni, M.Spotti
direttore Myung-Whun Chung
regia Robert Carsen
teatro La Fenice

VENEZIA – L’applauso finale più scrosciante era doveroso: alle maestranze del teatro, schierate in palcoscenico dietro al sovrintendente: a celebrare con commozione uno dei tanti miracoli di cui gli italiani sono capaci quando non diventano dei politici, facendosi allora incapaci di prevenire quei disastri da tamponare appunto con dei miracoli. Pessimismo? Certo.
Lo stesso di cui era preda Verdi nel trasformare Don Carlos in Don Carlo facendone opera diversa con lo spostarne l’ottica da grand-opéra d’impianto storico a scettica, amara metafora di quella realtà contemporanea (la Realpolitik piemontese nel Meridione conquistato; la legge Pica e quella sul macinato; i fatti d’Aspromonte; lo scellerato Sillabo di Pio IX che definiva “errori” ogni libertà di pensiero, tolleranza, scienza, diritto individuale) nella quale vedeva naufragare l’utopia di uno Stato Italiano che aveva creduto possibile potesse farsi. Pessimismo di cui questo spettacolo fa il proprio perno drammaturgico.
Una scatola d’antracite vista in prospettiva, solcata da luci gelide che scontornano personaggi fatti giganteggiare nel totale nulla oggettistico, memore del gran teatro elisabettiano. Shakespeare sottilmente adombrato da un Carlo-Amleto che contempla un teschio allorché compare solo all’allontanarsi dei frati di San Giusto: teschio che poggia anche sul tavolo da lavoro del padre Filippo. Il chiostro del Velo è alluso solo da mazzi di gigli che le dame-suore lasciano cadere. Tutti, nessuno escluso, vestono nero: il popolo compare fuggevolmente nella scena del carcere, altrimenti un oppressivo andare e venire di soli frati e suore. La religione è la corazza impenetrabile del Potere, incarnato nell’Inquisitore: che mette in pratica il Sillabo bruciando non gli eretici ma (geniale!) i libri; che individua la debolezza d’ogni dubbio e provvede a eliminarla nel modo più antico, ovvero manipolandola e inglobandola. Dunque Posa, l’unico personaggio che si relaziona con tutti gli altri, l’intimo di Carlo divenuto però anche “l’intimo del Re” e suscettibile pertanto d’accentuarne una crepa di debolezza politica, è strumento di chi davvero regge le redini del Potere, e fa rivestire il Re di piviale e triregno rivelandolo così pubblicamente come un fantoccio da esibire e manovrare. Si fa consegnare i “fogli importanti” da Carlo, che abbraccia solo per poter cominciare a leggerli dietro la sua schiena, e consegnarli subito dopo all’Inquisitore: che lo solleva dopo la sua morte apparente, e alla fine (una fine finalmente per nulla ambigua o tantomeno irrisolta) l’incorona dopo aver eliminato tanto Carlo quanto un Filippo possibile contagiato dall’eresia olandese.
Arbitrio? Ricordiamoci Verdi che in una celebre lettera sottolinea tutta la non-realtà storica del dramma schilleriano: e plaudiamo nel veder enfatizzato in chiara metafora scenica quanto s’è sempre sostenuto, ovvero essere l’Inquisitore l’unico vincitore al termine di questa amara, cupissima, indignata denuncia verdiana. Spettacolo geniale. Che trova perfetto contraltare nella direzione d’un Chung straordinario nel respingere ogni tentazione decadentistica in una concertazione tesissima, dai contrasti oltremodo marcati nella quasi totale assenza d’ogni chiaroscuro, dalle sonorità dense, a volte addirittura telluriche ma nelle quali taluni particolari timbrici (quei fiati sibilanti come “angui d’Aletto” nella scena Filippo-Inquisitore!) li si scopre per la prima volta.
Cast tutti di giovani e tutti in varia misura memorabili. Alex Esposito fraseggia da padreterno come sempre, ma qui la sua splendida voce s’espande con una morbida compattezza che scolpisce ogni frase estraendone il suo pieno significato. Piero Pretti è magnifico tanto come saldezza di linea quanto come chiaroscuro di fraseggio. Maria Agresta ha sempre gli acuti di forza troppo duri perché troppo di gola e poco sul fiato, ma piani e pianissimi sono stupendi. Sfumatissima, molto più interiorizzata del consueto ma con scatti repentini di folgorante incisività, Veronica Simeoni plasma un’Eboli eccezionale. Julian Kim ha voce ampia, di timbro magnifico e di linea impeccabile: fraseggio un filo inerte, ma con simile materiale la scena del carcere è assicurata. Marco Spotti è un’Inquisitore finalmente scevro dei gutturali borborigmi di cui l’affliggono i troppi interpreti slavi, restituendo alla parola tutta la sua valenza drammatica. Comprimari buoni salvo un orrido Frate, e coro di verdiana plasticità.
Elvio Giudici

 

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