Wagner – Siegfried

Wagner - Siegfried

interpreti L. Ryan, G. Siegel, J. Uusitalo, J. Wilson, C. Wyn-Rogers
direttore Zubin Mehta
orchestra de la Comunitat de Valencia
regia La Fura dels Baus
regia video Tiziano Mancini
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp.
2 dvd Major 700908

Nel terzo pannello del Ring valenciano, il gruppo della Fura si trova di fronte alla possibilità per loro assai gradita di trattare la Natura descrivendone la degradazione subita ad opera della tecnologia: i Nibelunghi (di cui Mime ancora comanda un nutrito gruppo) quali esponenti d’una scienza gelida e indifferente ai disastri che da essa discendono. In un tessuto narrativo ricco di fatti qual è il Ring, la loro traduzione in immagini sarà magari semplicistica, ma funziona incomparabilmente meglio di quanto non accada per opere senza trama e fatte solo di concetti astratti come ad esempio l’infelice Tannhäuser scaligero. Ecco dunque le rune disegnarsi sulla lancia di Wotan custode con essa dei patti. Ecco il verdeggiare iridescente e trascolorante della foresta. Frotte di mimi che fanno funzionare i complessi meccanismi, metaforici e no: come la catena umana avvolta in bianche pelli che rappresenta l’orso al seguito di Siegfried; o come la catena industriale del Niebelheim che sotto il colpo della spada appena forgiata da Siegfried collassa, la catena umana frantumandosi in una moltitudine di automi privi di controllo che muovono freneticamente gambe e braccia contorcendosi al suolo; o ancora, come il groviglio che ha invece seguito strisciando l’altro Nibelungo, Alberich, fermo davanti alla caverna di Fafner. Fafner stesso, un enorme mostro metallico di cui vediamo un fiotto di sangue eruttare sugli schermi in una scena da fare invidia cocente al Tarantino di Kill Bill. L’ultimo colloquio tra Siegfried e Mime, ciascuno su un piatto oscillante d’una misteriosa bilancia del destino immersa in una livida luce gialloverde. La barriera fatta di innumerevoli punte di lancia con cui Wotan sbarra il passo a Siegfried. L’uccello che pare una gigantesca libellula meccanica. La vertiginosa panoramica di catene montuose con cui il preludio al terz’atto descrive il viaggio di Wotan concluso col risvegliarsi di Erda sotto lo sguardo d’una pupilla immensa. Le liquide spirali che turbinano in una misteriosa luce verde a simboleggiare il fiotto del desiderio nel duetto finale tra Siegfried e Brünnhilde.
Il recupero della valenza mitica, operato attraverso il lussureggiare delle immagini, scalza ovviamente la ricerca più propriamente registica, come d’altronde avveniva di regola appunto nelle messinscene wagneriane antiche: con la non trascurabile differenza che qui il mito non è mai ridicolo o fumettistico ma possiede un indubbio fascino visivo. Poi, si può preferire (io la preferisco senz’altro) la dimensione da teatro da camera, con tutte le relative implicazioni psicologiche e psicanalitiche incarnate nei diversi personaggi: ma come tentativo di recupero dell’antica tradizione, scavalcando l’estetica di Wieland Wagner oggi improponibile perché – diciamocelo – sommamente noiosa nel suo spalmare il nulla su quattro ore, questo della Fura mi pare il migliore che si sia visto. Senza contare la parte musicale: ottima ovunque, ma che proprio nel Siegfried (cioè a dire nell’anello di norma il più debole della Tetralogia) tocca il suo apice.
Perché Lance Ryan sorpassa d’intere spanne quanto si sia udito negli ultimi quarant’anni dagli esponenti della parte: la voce è di caratura lirica, ma sicura, incisiva, luminosa e squillante oltre che di bel timbro. E la presenza scenica non sarà da copertina di rivista, ma il viso è bellissimo e l’insieme seducente, quantunque mosso da una recitazione un filo legnosa. Niente da fare invece, circa la presenza scenica, per Jennifer Wilson: agile, tuttavia, e sicurissima lungo l’intera tessitura. Juha Uusitalo si conferma il Wotan vocalmente migliore uditosi dopo Hans Hotter, e uno dei migliori quanto a fraseggio. Gerhard Siegel non ha forse la statura dei fraseggiatori sommi che in tale ruolo sono stati Zednik e Clarke, ma neppure sfigura più di tanto. Kapellmann e la Wyn-Rogers sono Alberich e Erda eccellenti. Alla guida della magnifica orchestra (sempre più incredibile, quanto possa esser brava una compagine formata dal nulla in così poco tempo!), il Mehta migliore uditosi da tempo immemorabile: sonorità maestose ma mai pesanti, al contrario fluide, mosse lungo archi dinamici sempre pulsanti lungo un arco di formidabile apertura, i diversi piani che le compongono resi sempre discernibili da una concertazione trasparente e luminosa, con una tavolozza cromatica che non solo risponde colpo su colpo al cangiare inesausto delle immagini, ma pare sollecitarle di continuo. Anche nella conduzione musicale, al pari di quella scenica, forse la brillante superficie viene privilegiata nei confronti d’un maggiore scavo analitico condotto sul trasmutare dei motivi e sul loro mutevole intrecciarsi: in compenso, però, racconta e sceneggia come ben di rado s’è sentito.
Elvio Giudici


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