Francesco Ceraolo . Verso un’estetica della totalità

Una lettura critico-filosofica del pensiero di Richard Wagner
editore Mimesi
pagina 179
euro 16

verso-totalita

Nel saggio “Arte e clima” (1850) Wagner scrive che la vera arte “non può nascere nel brulicare dei Tropici, o nella sensuale e floreale terra indiana, ma tra le nude rocce elleniche bagnate dal mare”. E lo sostiene rielaborando il principio geografico di Hegel, decisivo veicolo, per il filosofo di Stoccarda, della storia universale. Wagner rimastica Hegel. Ed è tutt’altro che l’unico caso. Distratti dalla relazione tra pensiero e opera, tra riflessione e creazione, i tantissimi scritti vergati di suo pugno ci sono rimasti inaccessibili e oscuri. E invece bastava non considerarli un semplice corollario dell’attività di compositore. A compiere questo salto, più semplice a dirsi che a farsi, ci ha pensato Francesco Ceraolo. Che in questo volume, difficile ma imprescindibile, riannoda i fili che legano la speculazione wagneriana a quella del suo tempo. Altro che compositore geniale ma pensatore logorroico e un po’cialtrone. Men che meno, come voleva Adorno, un mero antesignano della successiva “industria culturale”. Visto da questa angolatura, sapientemente scorciata da Ceraolo, Wagner è un lettore formidabile di filosofie e un intellettuale in grado di dialogare con le menti della Germania del suo tempo. Cruciale, per esempio, il rapporto con Hegel. Il suo orizzonte rimane idealistico, ma sulla superiorità dell’arte sulla filosofia come mezzo conoscitivo si schiera con Schelling. I grandi saggi wagneriani scritti intorno al 1850 sono figli delle teorie cardine del pensiero romantico, di Schlegel, Novalis, Hölderlin e Schiller, che assegnavano all’arte un ruolo centrale nella società. L’arte, più del pensiero, è strumento per un’umanità nuova, emancipata dal carattere industriale della modernità: insegna, con Fichte e Feuerbach, a recuperare il legame con la natura, ridotta dall’hegelismo (e dal cristianesimo) a realtà non autonoma. E assume le forme di un’opera “collettiva”, a partire dal comunitarismo di Stirner, Marx e Bakunin, e di una “mitologia” descritta da Schelling, che il compositore dimostra di conoscere a menadito.
Nell’estetica (musicale) Wagner è invece più hegeliano: anche lui pensa che la forma più alta di arte sia la poesia drammatica, e si pone il problema della “messa in scena” della parola, che da sola non basterebbe. Il Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, è figlio dell’hegelismo. E anche il rapporto vicendevole tra parola e musica, tra pensiero e suono, che in Wagner si manifesta nella dialettica tra voce e melodia orchestrale, ha origini nel pensiero di Hegel, il quale però ritrovava quell’equilibrio in Mozart e Rossini. Più note le vicende che portarono alla scoperta di Schopenhauer e all’abbandono di qualsiasi palingenesi rivoluzionaria che conduce Wagner a rivalutare il cristianesimo come forma di buddismo; e di conseguenza alla maggiore importanza attribuita alla musica sulle altre arti, manifestazione della volontà di vivere e strumento di redenzione: anche se – precisa l’autore – la riproposizione del sentimento religioso è più “vicina al carattere esistenzialistico della filosofia positiva di Schelling”. E così via, precisando, riannodando, scavando nelle fonti del pensiero wagneriano, che ora potrà essere ritrovato anche nei suoi testi letterari e nell’opera del compositore. Come peraltro in quella del “regista”. E da questo punto di vista risultano preziose le ultime pagine dedicate alla sua teoria del teatro: dove “la dicotomia tra ‘realismo’ ed ‘astrattismo’ scenico della musica resa visibile, aperta da Wagner e poi seguita rispettivamente da Ejzenstejn e Appia, nasce da una più ampia riconsiderazione sulla rappresentabilità della vita sulla scena”. Per Wagner la scena è vita e la generazione successiva di registi interpreterà al meglio la sua “profezia”. Con buona pace di tutti quelli che considerano le didascalie wagneriane alla stregua di tavole della Legge.
Andrea Estero

 

 


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