Verdi – Messa di Requiem

Verdi - Messa di Requiem

interpreti C. Giannattasio, V. Simeoni, A. Timchenko, C. Colombara
direttore Yuri Temirkanov
orchestra Filarmonica di San Pietroburgo
2 cd Signum SIGD184
prezzo € 17,06

Un famoso critico americano affermò che delle due letture del Requiem verdiano a suo parere ritenute le migliori su disco, quella di Toscanini era il Vecchio Testamento, e quella di Giulini il Nuovo: indicando nella prima una visione tragica, e devozionale nella seconda. Ma quello che più conta, è la disamina subito dopo condotta su come entrambe raggiungano fini tanto opposti attraverso un’identica e scrupolosissima osservanza delle prescrizioni testuali in merito a tempi e dinamiche. Temirkanov, in questa esecuzione dal vivo registrata a San Pietroburgo l’anno passato, è al riguardo alquanto più libero, soprattutto in direzione di un’accentuata rilassatezza, e gli esiti sono alterni.
Nel maggiore indugio, molti dettagli emergono con nitidezza attraverso un suono costantemente morbido e ricchissimo di chiaroscuri: ma la generale mancanza d’intima tensione li rende un tantino autoreferenziali. Le quartine degli archi staccate e leggerissime, ad esempio: lo sono senz’altro, ma mancano per così dire di propulsione. Nell’Offertorio, i fiati che reggono il cantabile del soprano sono lievi come devono, ma mancano della traslucida vibrazione che un Giulini, un Toscanini (ma anche un Karajan, per non dire di Abbado) sapevano conferir loro tendendo e rilasciando di continuo la dinamica con un effetto pulsante in mancanza del quale l’urgenza espressiva scolora in delicato acquerello. La tremenda incandescenza del Dies irae è alquanto composta, cesellata più che scandita. Molto ben calibrato il rispondersi delle trombe che avvia al Tuba mirum: ma il maremoto che dovrebbe far ribollire dall’interno il Confutatis, a me pare piuttosto un gentile sciacquio. L’eterea leggerezza del Lux aeterna è tutta un trascolorar di tinte squisite: troppo squisite. Nel Libera me, la sezione Andante inclina abbastanza vistosamente verso un Adagio, e la sua oasi riflessiva viene sì messa in evidenza (in cornice, direi piuttosto) ma a spese d’un rilasciarsi eccessivo della tensione drammatica.
Bella direzione, ci mancherebbe, e suonata da una delle orchestre il cui essere tra le migliori del mondo è fuori discussione ad ogni nota (quei violoncelli che introducono l’Offertorio!): ma non so se mi verrà voglia di risentirla spesso, laddove diverse altre non mi stancano mai da anni.
Non ben cantata, per giunta. La Giannattasio è molto migliorata rispetto ai suoi esordi, però il registro superiore è ancora aspro, stridente, refrattario ad ogni morbidezza. Huic ergo, con la sua salita al la acuto che dovrebbe essere pianissimo, trancia come lama di rasoio; il lunghissimo mi con cui entra nell’Offertorio, con la variazione dinamica imposta dalla forcella e dalla discesa di mezzo tono con successiva salita al la bemolle, sempre in pianissimo, sono faticosi gradini; nel Libera me, l’allargando e morendo di “et timeo” rispetta solo quello, mentre questo è aspro e forzato, come durissimo è il do del “libera me” subito prima dell’ultima ripresa; e il si bemolle in pianissimo è uno stridulo mezzoforte. Il tenore Alexander Timchenko ha timbro assai bello, che conferisce alle frasi in registro centrale e a certi passaggi sommessi tinte davvero affascinanti: però il registro acuto di forza è spinto e spoggiato, il legato sdrucito, il fiato è corto (nell’Ingemisco, sempre brutta, ancorché in folta compagnia, la presa di fiato a “qui Mariam – absolvisti”, che lascia purtroppo perdere tanto il dolcissimo quanto il morendo). Colombara parte con suoni abbastanza brutti, ma migliora sensibilmente nel prosieguo, accentando con proprietà il Confutatis e producendo ancora delle gran belle cavate all’Offertorio.
Migliore di tutti la giovanissima Veronica Simeoni. Bello il timbro, reso ancor più seducente dal canto tutto sul fiato che lo rende morbido, fluido, plasmato in legati magnifici. Mirabili gli attacchi tanto del Recordare quanto del Lacrymosa; fermissime le campate sia dell’Agnus Dei sia del Lux aeterna (dove fa ascoltare dei diminuendi da manuale quanto ad emissione del suono, ma soprattutto intensi e pieni di pathos nell’espressione – e dei tre, è di gran lunga la più esatta nell’articolare le scabrose terzine di “Requiem aeternam”); i pestiferi salti del Liber scriptum sono controllati da una perfetta musicalità, e l’accento diversifica i “Nils” finali donando però a ciascuno un rabbrividente ancorché timoratissimo sgomento. Da risentire con urgenza, in migliore compagnia vocale.
Elvio Giudici


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