Donizetti – La Favorite

BERGAMO

[interpreti] A. Mastrangelo, A. Gandìa, M. Cassi, F. Palmieri
[direttore] Marco Zambelli
[regia] Lamberto Puggelli
[teatro] Donizetti

Siamo alle solite. Giustissimo fare La Favorite in francese, in edizione critica (con anche la novità molto interessante di un finale "nuovo", cioè vecchio, com’era prima del taglio effettuato prima della "prima" o subito dopo) e quasi integrale. Però non si può farla così. Passi per l’allestimento che si può definire "tradizionale" o "polveroso" a seconda di come si vedono i bicchieri; passi per il francese cui mai come in questo caso calzava come un guanto la celebre definizione di Hegel, "diese Karikatur des italienische Sprache"; passi per il balletto senza balletto, eseguito a sipario chiuso, con un effetto grottesco; passi per una direzione il cui unico scopo era sostenere il palcoscenico; passi perfino, ma non dovrebbe passare affatto, per la modestia sconsolante dell’orchestra. Ma purtroppo per un’opera del genere i cantanti ci vogliono. Le direzioni artistiche dovrebbero rileggere (o più probabilmente leggere) i leggendari incipit di quel grande scrittore e uomo di grandissimo buon senso che fu Pellegrino Artusi: volete fare un pollo arrosto? "Primo, prendete un pollo". Volete fare La Favorite/a? Prendete un tenore, specie se poi l’infelice deve cantare pezzi che venivano tagliati anche da Kraus e da Pavarotti ai loro bei dì.
Però questa Favorite, più che una recensione, meriterebbe una riflessione. Quando ho cominciato ad andare a teatro io, non nel Mesozoico ma, diciamo, un quarto di secolo fa, l’opera in provincia si poteva ancora fare. Perché c’erano i cantanti e c’era il pubblico. Si dava La Favorita in italiano, con i tagli di tradizione e, in caso d’emergenza, anche qualcuno in più. Non cantavano i signori citati sopra ma, poniamo, Salvatore Fisichella o Umberto Grilli. Però, ri-poniamo, a Bergamo o a Modena o a Lucca, insomma nella buona provincia, c’era La Favorita e non era né un’operazione culturale né un prodotto da festival né una raffinata riesumazione, ma semplicemente un normale servizio pubblico offerto a una collettività che ne sentiva il bisogno. Ora questo pubblico non c’è più, in via d’estinzione per ragioni naturali; ma non ce n’è nemmeno uno nuovo, né si capisce come possa formarsi se gli si danno spettacoli così. E allora capita (a Bergamo, alla matinée della domenica, e con un Donizetti in cartellone!) che il teatro sia mezzo vuoto e tu ti debba chiedere, con dolore: vale ancora la pena, di fare l’opera così?
 
Alberto Mattioli

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299 Aprile 2024
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