Monteverdi – Il Ritorno di Ulisse in patria

Lo spettacolo capolavoro di Carsen si salda con la direzione fantasiosa di Dantone
interpreti C.Workman D.Galou, A.Vendittelli, J.Daszak, A.Z.Giustiniani, A.Patucelli
Direttore Ottavio Dantone
Orchestra Accademia Bizantina
Regia Robert Carmen
Teatro Alla Pergola

FIRENZE – Una prima notizia per gli habitué del Maggio. La Pergola – di solito girone infernale, a giugno inoltrato – ha installato, se non proprio un condizionamento, quantomeno un ricircolo d’aria che rende la temperatura perfettamente sopportabile (e quel giorno Firenze sfiorava i 38 gradi): cosa che riveste non secondaria importanza al fine di poter godere appieno di uno spettacolo memorabile qual è questo.
Stavo dando un’occhiata alla lista di spettacoli firmati Carsen: una marea che copre quasi quarant’anni, e in cui neppur uno è da considerare un fallimento, tutt’al più un quattro stelle anziché cinque. Non mi sovvengono tanti nomi di registi per i quali possa dirsi la stessa cosa. Per giunta, Carsen ha sì alcuni suoi “marchi di fabbrica”, per dir così, ma sempre, sempre, sempre ricavati dall’impianto drammaturgico del lavoro portato in scena (per dire: niente lavandini di Warlikowski o mutande di Kusej scaraventati in titoli purchessia) che in tal modo viene arricchito e potenziato, e per giunta mai sciorinati col tipico cincischio del Grande Riciclatore che finisce con lo scadere in un manierismo che nel migliore dei casi induce allo sbadiglio del prevedibile. Inoltre, i suoi spettacoli sono invariabilmente bellissimi da vedere: con tanti saluti (io aggiungerei sberleffi) allo Squallor che sembra conditio sine qua non di quasi tutti gli spettacoli in area tedesca.
Qui, Radu Boruzescu tiene il palcoscenico sgombro, ma lo inquadra entro una copia conforme del semicerchio dei palchi della Pergola. Dei elegantissimi in costumi secenteschi rosso fiamma prendono posto in tali palchi, a osservare, commentare, reagire con moti di stizza o di plauso o di ironia a quanto si svolge sul palcoscenico, dove agiscono i protagonisti in abiti contemporanei: Ulisse in tuta mimetica, Iro truzzo di periferia volgarissimo, i Proci usciti da una serie televisiva bene-ma-non-troppo, Penelope scicchissima e vera signora tanto in tenuta da notte che da giorno.
Gestualità misuratissima, da grande teatro all’inglese. Il Prologo evidenzia subito il rapporto tra gli Dei che contemplano ironici e impassibili il teatro umano: l’Umana Fragilità è difatti tricefala, affidata ai tre personaggi principali che si sporgono dai palchi “veri” del teatro, accanto a dove sediamo noi spettatori (e in questo periodo, quanto s’è dimostrata fragile l’Umanità tutta… sperando di poter parlare al passato). La barca dei Feaci che portano Ulisse dormiente è una tavola, ma la navigazione è invece una sorta di marcia funebre perfettamente adesa al ritmo musicale, e la punizione di Nettuno che la trasforma in roccia riguarda i Feaci stessi che si accucciano e diventano scogli su cui si siedono Ulisse e Minerva. Itaca riluce come un Eden ritrovato semplicemente al fioccare di coriandoli verdissimi illuminati da luci magistrali. Il Grande Macchinario barocco è alluso con un favoloso mix di ironia ed eleganza: Minerva trasporta Telemaco su una grande altalena che s’alza e abbassa per tutta l’altezza della scena; e le frecce che infilzano i tre Proci le porta Minerva sulle spalle di alcuni giovani, in un balletto en ralenti che la fa andare dall’arco ai petti da trafiggere, sempre in perfetto aplomb col ritmo musicale. Per ogni dove, ad ogni momento, il dominio che Carsen sfoggia dello spazio scenico è quello d’uno dei massimi “tecnici” della regia moderna, unito alla capacità di far recitare tutti come grandi attori di prosa: svolgendo un arco narrativo che dell’opera senz’altro meno “facile” di Monteverdi fa una sorta d’incalzante thriller. Capolavoro che farà senz’altro storia. Ma riesce compiutamente a farla perché la parte musicale è alla sua altezza.
Dantone e la sua magnifica orchestra imprimono all’azione un dinamismo straordinario senza mai cadere nello spiritato: estrema libertà ritmica, inesausta fantasia dinamica, continue scoperte timbriche, fusione magistrale con le linee vocali d’un cast benissimo scelto soprattutto nella capacità di articolare la lingua italiana (e che lingua!!) estraendone la musica interna, imprescindibile sine-qua-non del recitar cantando. Charles Workman dimostra che la parte di Ulisse guadagna enormemente con un timbro tenorile scuro, da baritenore: e certe sue velature brune sottolineano con impareggiabile maestria – al pari della misuratissima gestualità – la fisionomia d’un eroe stanco ma sempre eroe. Delphine Galou è un filo esile e la sua pur ottima dizione non sempre si traduce in accento capace di variare abbastanza una parte difficilissima come questa, in sostanza un lungo lunghissimo lamento che è il fraseggio con le sue infinite sfaccettature ad innalzare a statura tragica. Grandissimo caratterista John Daszak, che si ricorda eccellente interprete wagneriano e qui disegna un Iro capace di mutare il grottesco in tragedia esistenziale. Stella del cast la Minerva di Arianna Vendittelli, bella voce bella linea bella donna: ma tutta la folta locandina allinea cantanti-attori-interpreti che pienamente hanno meritato le lunghe ovazioni d’un pubblico di necessità esiguo ma che sacrosantamente deciso a produrre battimani da tutto esaurito.
Elvio Giudici

 

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299 Aprile 2024
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