Rameau – Les Indes galantes

interpreti A. Brahim-Djelloul, J. Van Wanroij,
B. Arnould, E. Warnier, V. Prato, N. Berg, A. Dahlin
direttore Christophe Rousset
orchestra Les Talens Lyrique
regia Laura Scozzi
regia video Olivier Simonnet
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted.
dvd Alpha 710
prezzo 29,20

 

Rameau

Quantunque Rameau, e in particolare quello delle Indes, sia stato sempre presente all’Opéra Garnier di Parigi a partire dal celebre spettacolo del 1952 messo in scena da Maurice Lehmann (uno dei protagonisti più discussi ma anche geniali – regista di cinema e teatro, sovrintendente per vent’anni dello Châtelet e poi dell’Opéra – della vita culturale parigina) e diretto da  Louis Fourestier dopo che Henri Bousser aveva ritoccato pesantemente l’edizione che Paul Dukas aveva approntato nel 1902, chiave di volta della moderna riscoperta di Rameau: nessun dubbio che la filologia moderna dei Gardiner, Christie, Minkowski, ne abbia reso radicalmente diversa la fruizione sonora, non meno di quanto i fondamentali spettacoli di Pizzi abbiano funto da battistrada per i capolavori degli Herrmann, di Pelly, di Carsen, di Montalvo rendendo di stupefacente modernità un teatro che si pensava essere solo un sontuoso museo.
L’unico precedente in video era lo spettacolo di Andrei Serban e William Christie, edito dalla Opus Arte: molto bello, però questo è meglio. Rousset utilizza un’edizione condotta sul manoscritto del 1750 conservato alla biblioteca di Toulouse (con significative varianti rispetto a quella di Christie, specie nell’atto dei Fiori): e la dirige con quel profluvio di colori morbidi e iridescenti, quei profili ritmici nitidi ma mai aguzzi, quel continuo pulsare dinamico “in avanti”, quell’estrema chiarezza nell’articolare l’interna dialettica strumentale, che da sempre ne caratterizzano le esecuzioni orchestrali non meno che clavicembalistiche, facendone uno degli interpreti barocchi più teatralmente convincenti.
Laura Scozzi gioca la carta della contemporaneità: anatema quindi per i nostalgici di guardinfanti e piume in testa, goduria per gli amanti del teatro intelligente, capace d’interrogare un classico non solo in merito a come veniva eseguito trecent’anni fa, ma a quanto eventualmente contiene d’interessante per noi oggi. Le  quattro storie d’amore contrastato in seno alle conquiste di terre lontane (sullo sfondo di altrettante ambientazioni differenti costituite dalla Turchia, dal Perù, dalla Persia e da una foresta americana, inframmezzate da divagazioni di tono più leggero o “galanti”, come appunto si usava dire) precedute dalla disputa tra Hébé fautrice della pace e Bellone vogliosa di guerre di conquista: mantengono il dato di fondo costituito sia dalle relazioni interpersonali e quindi di popoli, sia dall’avidità che violenta tanto la Natura quanto l’uomo, ma trovano sagaci paralleli odierni.
Il Prologo s’ambienta in una sorta di Eden gioioso nel quale undici ballerini interamente nudi celebrano nella danza la bellezza e l’armonia dei corpi, esaltati da Hébé ma mortificati dall’irrompere del serpente contemporaneo, il guerrafondaio Bellone alla testa di chi contava ieri (generali, preti e cardinali con alla testa il Papa in persona, tutti a pescare distrattamente patatine dal sacchetto multicolore) ma erano migliori di quelli di oggi, quando a contare di più sono faccendieri politici assidui frequentatori di “cene eleganti”, rock star e calciatori, tutti pronti a mutarsi in tuttologi dispensatori di saggezza. E in mezzo, Amour recluta sotto le proprie bandiere tre turisti, affinché girino per il mondo a testimoniare la sua eterna gloria pur in mezzo a religione, economia, consumismo del mondo odierno: peccato si rivelino tre smandrappati nel loro compulsivo fotografare in luogo di vedere e capire.
“Il turco generoso” è un trafficante d’esseri umani, in cui incappano Émilie e Valère in fuga da una dittatura mediorientale. Gli “Incas del Perù” hanno in Huascar una sorta di Abimael Guzmán che proclama l’utopia maoista del suo Sendero luminoso, ma è utopia minata dall’ipocrisia di chi se ne serve per commerciare droga: (“Soleil, on a détruit tes superbes asiles”, l’aria d’ispirazione voltairiana cui Rameau ha affidato la sua fede massonica, diventa un inno al cinismo più bieco): e all’arrivo dell’esercito regolare, in luogo dell’eruzione del vulcano in cui gettarsi, fa esplodere una granata. “I Fiori” ritraggono la condizione della donna nel mondo moderno: Tacmas strumentalizza la religione per tener piegate le donne e godersi la poligamia, imponendo il bourka a quante vorrebbero invece vestirsi come mostruose Barbie complete di stivaletti rosso fiamma. “I Selvaggi” mette in scena le lotte ecologiste contro le deforestazioni. Il tutto, assemblato in una narrazione che fila compatta e consequenziale senza un attimo di stanca, la satira più corrosiva tinta sempre dello sberleffo irriverente che la rende ancor più vetriolica, rivelando in questa fantasiosissima coreografa l’antica collaboratrice di Laurent Pelly.
Cosa evidente anche, se non soprattutto, nel come fa recitare in modo strepitoso tutta quanta la compagnia, i cui attori cantano per giunta assai bene: menzione speciale per la Émilie di Judith van Wanroij (che quando, nelle vesti di Atalide, fa il verso a Marilyn, è irresistibile), l’Huascar di Nathan Berg (l’inno al sole è davvero trascinante), l’Osman di Vittorio Prato.
Elvio Giudici

 

 

 


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299 Aprile 2024
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