Vinci Didone abbandonata

interpreti R. Mameli, C. Allemano, R. Pé, G. Costa, M. Pluda, G. Frasconi
direttore Carlo Ipata
orchestra Maggio Musicale Fiorentino
regia Deda Cristina Colonna
regia video Matteo Ricchetti
sottotitoli It, Ing, Fr, Ted
2 dvd Dynamic 37788
prezzo 27,60

Tra i sessanta impieghi che il libretto di Metastasio ha conosciuto nel melodramma (e con nomi non proprio secondari quali Scarlatti, Handel, Albinoni, Galuppi, Jommelli, Porpora, Traetta, Piccinni, Hasse, Paisiello, Cherubini: tutti impegnati nel cercare d’elevare un po’ la vicenda poco epica e molto telenovela di Iarba che ama Didone che ama Enea che l’amicchia ma preferisce la missione, a fianco di un bieco Osmida che non ama nessuno se non il potere, e con Araspe che ama Selene sorella di Didone che ama pure lei Enea) quello di Vinci spicca per essere perfetto e alto esempio di scuola napoletana: solo arie solistiche, cucite da recitativi sovente accompagnati, tutti all’insegna d’un melodizzare facile, scorrevole, elegantissimo, dove l’intensità affettiva in quanto tale ha quasi invariabilmente la meglio sulla definizione psicologica dei singoli e, men che mai, sul loro evolversi. Non all’altezza insomma, quest’opera, di quel gioiello tutto verve e languida sensualità che è Li zite ‘n galera: ma musica sempre di elevatissima fattura.
Spettacolo molto risparmioso, andato in scena nel minuscolo Goldoni di Firenze. Scena occupata da una grande scalinata dominata da sfinge dorata, e da un modesto intrico di tubulari in guisa d’interno multiuso; sullo sfondo candido, diversi giochi d’ombre – edifici, navi, guerrieri – eseguiti con abilità dalla Compagnia Altretracce esauriscono una regia che si limita a far salire qualche gradino a quanti deputati all’aria solistica, farli star lì quasi in posa per foto ricordo, per poi scendere con anticlimax ai limiti del grottesco, che aggravano la tendenza alla macchietta fatta serpeggiare più spesso del tollerabile (questo Iarba digrignante e spiritato che carambola tra cartaginesi ieratici e “nobili”!).
Ipata dirige con grande scialo di impeti e penuria di chiaroscuri, alle prese con un’orchestra non sempre precisissima. Nel cast, tutto italiano (niente nazionalismo, per carità: è solo che i versi, pur nella loro genericità drammaturgica, sono armoniosamente bellissimi e molto si giovano d’una corretta loro articolazione intrinseca) spiccano la protagonista Roberta Mameli che pur tra occasionali fissità e disuguaglianze svolge una linea robusta innervata da accenti di passionalità al calor bianco; e il controtenore Raffaele Pé che, nelle parti del rozzo Iarba, sfoggia gran volume, ottima sgranatura delle agilità, fraseggio incisivo e – per quanto resogli possibile dall’insensata isteria cui lo confina la regia – ricco di sfumature. Giada Frasconi è un po’ a disagio in una tessitura per lei troppo bassa, ma riesce sempre interessante nel gioco degli accenti ora insinuanti ora protervi di Osmida. Gran bella voce quella di Gabriella Costa nei panni di Selene, molte durezze in alto inficiano quella di Carlo Allemano, parecchio esangue la forse ancor troppo giovane Marta Puda.
Elvio Giudici

 

 

 

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298 Marzo 2024
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