Theodor W. Adorno – Alban Berg. Il maestro della minima transizione

a cura di Paolo Petazzi
editore Orthotes
pagine 214
euro 18

È trascorso giusto mezzo secolo dal trapasso di Adorno, e fra le icone sbiadite del mitico Sessantotto la sua non gode salute granché migliore rispetto ai “colleghi” Marcuse, Mao e Che Guevara. Questo per rimanere sul piano effimero degli idola fori, perché la sua enciclopedica riflessione critica sul moderno può riservare ancora inedite sorprese a chi non ardisca avventurarsi nei meandri della sua multistratificata prosa tedesca. Benemerita giunge quindi l’iniziativa di un berghiano di lungo corso quale Paolo Petazzi di tradurre e commentare un libretto del 1968 che raccoglieva precedenti scritti del maestro francofortese, usciti in un arco protratto dal 1937 a metà anni 50.
A differenza dell’amore non ricambiato per Schönberg, quello di Adorno con Alban Berg fu rapporto gratificante per ambo le parti: discepolato musicale e consonanza umana, come attesta il decennale carteggio intercorso fra i due sino alla morte del compositore (1935). Diremmo perciò che Adorno sia l’interprete più autentico della poetica di Berg o il più accurato fra i suoi biografi? Forse no; eppure la sua chiave ermeneutica, che afferma l’inseparabilità dell’uomo dal musicista, falcia l’erba sotto i piedi alle polemiche sulla pretesa posizione regressiva di Berg rispetto alle avanguardie radicali del primo Novecento. Scrive Adorno: “La sua concretezza, la grandezza della sua umanità, sono dovute alla tolleranza nei confronti del passato, cui egli dà spazio, ma non accogliendolo alla lettera, bensì ritornandovi in sogno e nel ricordo spontaneamente affiorante. Fino all’ultimo egli si nutrì dell’eredità del passato e sostenne così il fardello sotto al quale si curvava la sua alta figura. Quell’eredità ha impresso nell’opera i suoi inconfondibili tratti fisiognomici”. Nell’agile quanto densa postfazione Petazzi rintraccia le fonti e l’evoluzione del pensiero di Adorno su Berg, affrontando altresì alcuni nodi critici relativi al Wozzeck, al finale incompiuto della Lulu e al programma nascosto della Lyrische Suite. Di quest’ultima, pur senza conoscerne tutte le segrete implicazioni autobiografiche venute più tardi alla luce, Adorno aveva già intuito la natura di “opera latente” ovvero di “forma intermedia” fra il quartetto d’archi e il Lied.
Carlo Vitali

 

 

 

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299 Aprile 2024
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