Traviata, le esequie di un sogno

Il debutto in Arena dell'ultimo progetto avviato da Zeffirelli. Una serata riassuntiva, che chiude un'epoca

Non gli applausi, non le torrenziali prolusioni istituzionali. Ad aprire Traviata e la 97° edizione d’Opera all’Arena di Verona è stato invece il corteo funebre di Violetta, coi cavalli neri, la carrozza nera, il mesto corteo, nero anch’esso, ma scarno di partecipanti, come fosse il funerale di una dimenticata, come anche Zeffirelli stesso aveva dichiarato di sentirsi nel sistema culturale italiano. Tutto reale, tutto cinematografico, eppure calato nell’irreale silenzio di un luogo che al silenzio per natura non sarebbe abituato. Così, in questa inevitabile sovrapposizione semantica e cronologica tra la morte di Franco Zeffirelli e del personaggio verdiano che dal 1958 il regista aveva messo in scena otto volte, è cominciata Traviata, trasformata a soli quattro giorni dal debutto in una diretta Rai in mondovisione, motivo che ha salvato la puntualità della serata al cospetto di Sergio Mattarella e di mezzo governo.  Chissà se Zeffirelli, che di questo progetto ha visto e approvato solo i bozzetti, ha considerato questa regia la sua nona Traviata, raggiungendo il limite beethoveniano che spaventava tutti, da Schubert a Brucker; o se invece l’ha presa come la sua Traviata “8 ½”, mettendosi nei panni di Guido Anselmi alla ricerca di una quiete minata negli ultimi tempi dalle pressanti visite a domicilio, mentre i sogni inaridivano assieme alla vita. Ma i numeri in questa caso non contano che per il simbolo.  Sia stata la Traviata nona o quasi nona, di sicuro quella di Verona è stata la parabola riassuntiva che ha raccontato, a chi ancora non lo sapesse, il percorso di un artista che al classico ha dato la sua prima e ultima parola. In questa produzione, che comincia dalla fine e si sviluppa su due piani di casa abbracciati dalla barcaccia d’un teatro, si rivedono elementi di un percorso sessantennale, dal 1958, quando Zeffirelli incontrò Maria Callas, passando per il 1964 alla Scala con la direzione di Herbert von Karajan, fino alle produzioni per il cinema e per il Metropolitan. Ma per una volta l’effetto déjà-vu è parso aggiungere forza, anziché smorzarla. Chiaro, perché la suggestione dell’addio non poteva che condizionare dall’inizio alla fine la fruizione dello spettacolo. Ma anche perché da questa Traviata in avanti la parola fine – su un’idea di teatro classica e immutabile, su un’epoca che ha fatto la storia – è scritta davvero in maniera inappellabile. Con questo senso di “mai più” Daniel Oren ha condotto l’opera in un clima volutamente cinerino, come lavorando in dissolvenza, portando l’esplosione della vana richiesta di Violetta (“Amami Alfredo”) verso le tinte fosche di un Requiem di passioni mortificate. Aleksandra Kurzak ha assecondato questa volontà con una recitazione plausibile per il contesto cinematografico in cui si trovava, senza inficiarne la potenza vocale, che in luogo come l’Arena è più di tutto. Più problemi, in questo, ha riportato l’esile Alfredo di Pavel Petrov, ma non il Giorgio Germont di Leo Nucci, né il cameo di Daniela Mazzucato nei panni di Annina. Straordinari i costumi di Maurizio Millenotti, usciti da un Ottocento reale. E ora questa Traviata è attesa a prove più laiche, dal 28 giugno al 5 settembre. Tra queste, la data celebrativa è quella del primo agosto, quando per festeggiare il mezzo secolo dal debutto italiano, Plácido Domingo sarà Giorgio Germont per la prima volta in Arena.

Luca Baccolini


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298 Marzo 2024
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